Guerra totale
La più ricorrente delle similitudini storiche diffuse nei media e nel dibattito pubblico è quella che paragona il Covid-19 a una guerra. Le parole più ricorrenti sono infatti tratte dal lessico militare – trincea, prima linea, campo di battaglia, armi ecc – che evocano una lotta senza esclusione di colpi: una guerra, appunto, che lascia sul terreno morti e feriti.
Ma le guerre, soprattutto quelle mondiali, che hanno caratterizzato il XX secolo, non sono solo eventi militari, ma fenomeni storici molto più complessi che comportano una trasformazione profonda del rapporto tra individui, società e nazione. Gli storici le hanno chiamate “guerre totali” perché chiamavano in causa l’impegno integrale di tutte strutture/istituzioni di cui si componeva uno stato nazionale, che andava ben oltre le attività militari. I due versanti di maggior rilievo riguardavano la politica e l’economia.
Guerra e destino
Infatti per essere combattuta una guerra totale, che mobilita centinaia di milioni di uomini e donne sul campo di battaglia e nelle retrovie, deve diventare per tutti, militari e civili, un “destino comune” al quale vanno subordinati gli interessi individuali e la possibilità di poter disporre liberamente della propria esistenza, cioè perseguire il proprio destino individuale.
In questo “destino” vanno rintracciate le ragioni ideali e morali e il quadro di riferimento ideologico che renda giustificabili i sacrifici e gli obblighi che vengono imposti al fronte e nella vita civile a tutti i cittadini: chi sta al fronte deve obbedire al codice militare e non più a quello civile; chi continua a svolgere una vita civile è sottoposto al razionamento del cibo, al coprifuoco, ai divieti di spostamento, al silenzio
Anche la “guerra al virus” chiama in causa questa complessa serie di piani materiali e spirituali che interagiscono nelle guerre “vere”. Il “fine superiore” della salvaguardia della salute collettiva impone l’obbligo di stare a casa e di portare la mascherina, il distanziamento sociale, le quarantene, fino a una pesante invasione della privacy con la tracciabilità dei nostri spostamenti grazie alle nuove tecnologie: anche la guerra metaforica dunque sottende la definizione di un destino comune, che non è “contro” gli altri destini comuni che si combattono al fronte, come nella I o nella II guerra mondiale, ma che comunque evoca una sorta di cessione della “sovranità individuale” e della libertà personale stabilita dalla costituzione.
E in entrambe le guerre – quelle vere e quelle metaforiche – l’ente superiore che di quel destino comune è il promotore e il garante è sempre lo stesso: lo stato in stretta simbiosi con il governo che dopo averlo delineato lo amministrano e lo controllano, dosando sapientemente richiami etici, spirito comunitario, livello degli obblighi e pene per i trasgressori. Il destino comune è dunque una costruzione eminentemente politica, anche quando è orientato a “fin di bene”, nella quale la definizione dei sacrifici molto rapidamente si dilata ad altre sfere della vita collettiva, oltre quelle materiali, e che chiamano in causa la libertà di pensiero e le scelte politiche: nelle guerre vere contestare le scelte statali fino a negarne la loro legittimità, era assimilato al tradimento, all’intendenza con il nemico e quindi punibile persino con la morte, nel quadro di una progressiva centralizzazione della decisione politica che esautorava il parlamento, trasformato in una macchina acritica utile solo ad approvare le scelte del governo, perché anche la dialettica tra i partiti era considerata un pericolo per l’unità “organica” della nazione.
Guerra e democrazia
L’esperienza bellica fa emergere, dunque, che il perseguimento del destino comune cozza con la democrazia, che è lo spazio politico dove si alimenta il pluralismo delle idee e il conflitto tra differenti destini collettivi: le guerre hanno sempre semichiuso i parlamenti, impedito le elezioni, cancellato i diritti delle opposizioni, soppresso molte libertà civili.
Nella lotta alla pandemia questo non accade in termini così radicali, ma indubbiamente si assiste a una marginalizzazione del Parlamento e a un ottundimento del ruolo dell’opposizione e del dibattito parlamentare: i pieni poteri concessi ai presidenti dell’Ungheria e della Slovenia costituiscono un esempio, lampante, anche se estremo, di questa tendenza che anche in Italia si manifesta nell’utilizzazione dei decreti del presidente del consiglio, attraverso i quali si sono bloccate le attività produttive, si è imposta una quarantena generalizzata dei cittadini e limitazioni rigide alla mobilità, con una semplice ratifica ex post dal parlamento, tra l’altro mezzo chiuso per la pandemia e la difficoltà di consentirne le attività parlamentari a distanza.
Parallelamente si assiste al diffondersi nell’opinione pubblica di un atteggiamento di condanna e di discredito nei confronti di chi mette in dubbio le scelte governative e si permette di criticare l’operato della macchina organizzativa disposta dallo stato per fronteggiare la pandemia, che mette in luce la forza identitaria del “destino comune”, capace di aderire alle paure collettive e al bisogno di protezione della popolazione chiamata a un cimento estremo.
Come scrisse nel 1917 un famoso sociologo tedesco, Johann Plenge, la Prima guerra mondiale aveva messo in soffitta le parole d’ordine della Rivoluzione francese – libertà, fraternità, eguaglianza – sostituendole con la triade, «dovere, ordine, giustizia»: era lo “spirito del 1914” contrapposto a quello del 1789.
La forza del destino comune
Seppur non nei termini che si verificarono in occasione delle guerre mondiali per ampiezza e profondità, anche oggi nella lotta al Covit-19 riemerge un ripiegamento verso la delegittimazione del pensiero critico, sia che invochi la centralità del parlamento, sia che revochi in dubbio la strategia seguita per combattere l’epidemia o metta in guardia dalla necessità di evitare che il “tutti a casa” diventi un messaggio securitario.
È come l’altra faccia della medaglia: mentre in una lo stringersi attorno alle istituzioni rappresenta la condivisione delle scelte che quel comune destino comporta, nell’altra, nella guerra vera come quella metaforica, nell’altra si delinea quella tendenza alla diffusione dello “spirito gregario” – cioè quella “sete di obbedienza” tra le masse di fronte all’irruzione dell’imprevisto – su cui Freud ha scritto pagine memorabili proprio dopo la guerra del ’14 -’18 (Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1921) -,
Da qui deriva non solo il sospetto che circonda quei politici o quegli opinion makers che mettono in dubbio le scelte fatte e sembrano voler incrinare le granitiche certezze dell’opinione pubblica, ma anche l’esaltazione per il “capo politico”, che fa sembrare Conte l’erede di Churchill o di Aldo Moro e fa perdere di vista i principi dello stato di diritto e della democrazia liberale, fino a poco prima ritenuti saldissimi.
Ma, come è accaduto nel XX secolo, la forza del “destino comune” sta nella vittoria: cioè funziona finché esso legittima i sacrifici alla luce dei risultati che la guerra ottiene nel suo corso. Di fronte alla sconfitta quel “destino comune” si infrange in maniera direttamente proporzionale alla caduta della legittimità politiche delle élites che avevano sostenuto e diretto la guerra e la società come una maionese impazzita si frantuma alla disperata ricerca di una via d’uscita.
È accaduto nella Russia del ‘17, nella Germania nel ‘18, per molti aspetti anche nell’Italia dopo Caporetto; è accaduto nell’Italia e nella Germania dopo la caduta dei fascismi, che avevano portato alle estreme conseguenze totalitarie il mito politico della nazione come “comunità di destino”.
Alternative di destino
Queste dinamiche si possono verificare anche nella “guerra al virus”, perché la vittoria è attraversata da una ambiguità. Vincere infatti non è chiudersi nelle trincee domestiche in attesa dell’”Ora X” della scoperta del vaccino e delle vaccinazioni di massa, ma riuscire a vincere il virus con le tecnologie a disposizione per riconquistarci gli spazi della vita: una riconquista sempre sottoposta al rischio del contagio e resa precaria dalla forza del “nemico”, ma indispensabile per il futuro dell’umanità.
Il destino comune che ha coinciso con il chiuderci in casa e ha modellato la legittimazione del potere politico sul governo dello “stare a casa”, può rapidamente infrangersi contro la promessa di un nuovo destino comune: quello di “uscire di casa” e riprendersi la vita.
Oggi questo crinale si manifesta in tutti i paesi europei, ma in Italia in particolare perché il governo rosso-giallo e in particolare in presidente del Consiglio Giuseppe Conte hanno cercato di colmare il loro originario deficit di legittimazione proprio attraverso la creazione del “comune destino” della lotta al virus con un “tutti a casa” senza alternative, né politiche né tecniche, da procrastinare sine die e pagando l’inevitabile collasso economico con un incremento del debito pubblico, posto in carico prevalentemente alla Unione europea.
Ma già ora questa operazione, piena di sgorbi populisti, di pulsioni antieuropeiste, di esaltazione dell’italico vizio del “chiagni e fotti”, mostra ormai il fiato corto, perché non ha nessuna strategia, né nessuna proposta per potersi intestare il passaggio al comune destino della rinascita e della ripartenza.
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